NESSUNO ESCLUSO! I temi vincitori

Pubblichiamo i temi migliori del 24° concorso scolastico per la Borsa di Studio.


di Alice B.4AC Istituto tecnico – Chimica e Materiali - I.S. “A. Sobrero”

“Quante oscurità occorre attraversare per divenire luminosi”. Ho letto questa frase navigando in internet, qualche giorno fa, ed è subito riuscita ad attirare particolarmente la mia attenzione, quasi come fosse un lampeggiante pubblicitario. Così Davide Rondoni, poeta e drammaturgo italiano, scrive in una delle sue raccolte di poesie: per lui la luce è parola chiave, non solo all'interno del suo libro, non solo per il poeta o per il filosofo, che è in grado di ricercare una vera e propria profondità nell'etimologia della parola stessa, ma anche per ognuno di noi, nella nostra quotidianità. 
Nelle ultime settimane, il mondo è avvolto da una fitta nebbia nera, invisibile agli occhi dell'essere umano e quasi impercettibile; le strade sono deserte, le piazze vuote, qualche passante, con estrema discrezione, attraversa le vie principali solo per andare a fare la spesa. Un “semplice” virus ha serrato le porte e rinchiuso nelle proprie abitazioni un’intera popolazione, e non solo a livello nazionale. E così, spontaneamente, il mio cervello associa questa sorta di “reclusione forzata” allo stato d’animo di una persona che si sente esclusa, non accettata, messa da parte. È una connessione che fatica a stare in piedi, quasi me ne rendo conto, ma riesco perfettamente a mettermi nei panni di chi ogni giorno fa di tutto per uscire dal proprio ghetto interiore.
I giornali ne riportano notizie quotidianamente, interi servizi televisivi raccontano la drammaticità di storie di uomini e donne che vengono discriminati in base alle loro condizioni sociali, alla lingua, alla razza, alla cultura, alla religione. Sono generalmente gli adulti, che si presume abbiano una maturità e una mentalità superiore a noi adolescenti o ai bambini, a dare un proprio giudizio, positivo o negativo, sulla base delle loro idee politiche, della loro filosofia ed esperienza di vita. Ma quante volte, pur avendo i requisiti necessari per “essere accettati” dalla società, è capitato ad ognuno di noi di sentirsi escluso o messo da parte, all'interno del gruppo classe, della compagnia di amici o in ambito lavorativo?
È difficile parlare di se stessi, delle emozioni provate, di come affrontare determinate situazioni e sulla base di questo trarre delle conclusioni e dare consigli, oggettivi o soggettivi che siano, a chi legge questa manciata di parole, scritte utilizzando l’unico mezzo che in questi giorni ci permette di comunicare con chi sta fuori dalle mura di casa, senza rischiare di risultare prolissi, ripetitivi ed esagerati. Quando ci si sente soli, tristi, mancanti di affetto o comprensione, pian piano si alzano attorno a noi alte mura che ci separano dall'esterno e in qualche modo sembrano proteggerci e nascondere le nostre fragilità. Risulta sbagliato, agli occhi di chi con convinzione sostiene di avere un carattere “più forte”, rifugiarsi all'interno della fortezza che si viene a creare, come una principessa rinchiusa in una torre, la quale attende speranzosa e malinconica di essere salvata da un coraggioso principe. C'è, però, il rischio di cadere nel vittimismo e nell'egoismo, tenendo fede alle teorie di Copernico e ponendoci al centro del sistema, cercando in ogni modo di attirare l'attenzione e puntare i riflettori sulla propria immagine; o al contrario scomparire quasi del tutto ed isolarci da ogni forma di individuo. Sentirsi esclusi è quindi una fragilità dell'anima, interiore e caratteristica per ognuno; l’anima rispecchia la parte essenziale dell’essere umano, che non può “essere truccata o fotografata”, ma che spesso viene nascosta dietro delle maschere, così da non mostrare debolezza e sensibilità.
“Escludere, scartare, rifiutare, allontanare”. Tanti i sinonimi, come tante sono le sfumature di significato assunte dalla parola, che a volte va letta con occhi diversi, percepita con il cuore e provata come se fosse un’emozione, uno stato d'animo. Un concetto astratto che, in questo periodo in cui stiamo vivendo una situazione quasi surreale, da film di fantascienza, mai immaginata né tanto meno prevista da nessuno prima d'ora, ci porta a riflettere e spingere lo sguardo oltre la nebbia.
Vivere in un “pianeta gravemente malato”, come l'ha definito Papa Francesco durante il momento di preghiera straordinario che egli ha tenuto in piazza San Pietro, completamente deserta, venerdì scorso, non ci è mai importato particolarmente. Siamo rimasti indifferenti di fronte a guerre e ingiustizie; assordati dal frastuono di un mondo che corre ad alta velocità, non abbiamo saputo ascoltare il grido dei poveri, degli affamati, degli indifesi. Ed ora invece, ci ritroviamo ad essere tutti naviganti in balia delle stesse onde, in un mare agitato e burrascoso, impauriti dal presente e dal futuro che verrà quando tornerà il sereno. È forte il desiderio di scendere in strada, rivedere amici e compagni, potersi riabbracciare e sorridere... gesti semplici che prima davamo per scontato, senza pensarci o darci troppo peso, ma che adesso siamo costretti a limitare o, addirittura, eliminare. Mi rendo conto, io per prima, di quanto sia importante ricevere e dare affetto. “Distanti ma uniti”... avevamo davvero bisogno di un nemico, invisibile e quasi invincibile, per comprendere i valori fondamentali della nostra esistenza? Probabile, ma neanche tanto. Nel momento in cui sarà possibile tornare a fare la vita di tutti i giorni, sarebbe bello fare più attenzione a chi ci sta attorno, dal vicino di casa al senzatetto in strada, darci conforto l’un l’altro nonostante le diversità di colore o religione, spalancare le braccia per accogliere senza escludere, piuttosto che incrociarle in tono di superiorità e superbia, aiutare e ad amare di più.
Molti torneranno a fare la vita di sempre, quando sarà possibile uscire non solo per comprovate necessità; altri avranno una mentalità diversa, responsabilità maggiori e, quasi esagerando, una marcia in più. Se siamo in grado di dimostrare umanità e vicinanza attraverso lo schermo di un computer o di un telefono, allora saremo capaci di farlo anche guardando fisicamente negli occhi l'altra persona. Sentiamo spesso parlare della cosiddetta “luce in fondo al tunnel”, la quale si desidera tanto scorgere soprattutto dopo un momento di sofferenza o dopo una situazione difficile, come quella nella quale ci ritroviamo. Ecco che, ad esempio, sentirsi esclusi è come intravedere quella luce da lontano, da un angolo più buio, talvolta in completa solitudine. Quella solitudine, che nelle ultime settimane, è alleggerita da canzoni, flash mob, video, foto, messaggi.
Come Madre Teresa, quando sentì venir meno il sentimento della fede, la sua normale consolazione nella preghiera, facciamo della nostra “notte oscura”, anziché una prigione, un ponte verso gli altri, un vincolo di solidarietà. Non dimentichiamoci degli insegnamenti appresi durante l’isolamento che ci è stato imposto; non perdiamo la voglia di fare e mantenerci attivi, svegli, costantemente in contatto. Di certo non avverrà una rivoluzione, le diversità continueranno ad esserci e si combatterà ancora per manifestare l’inclusione, in un mondo proiettato verso il futuro, ma riusciremo man mano, sempre di più ad avvicinarci alla luce, che brilla soprattutto sulle cose minime.

di Gaia F. - 2° segmento serale - Amministrazione Finanza e Marketing - I.S. "Leardi"

Quando si ha a che fare con le persone è inevitabile fare delle distinzioni in base al fisico, al modo di vestire, alle capacità intellettive o ad ogni tipo di diversità che possiamo riscontrare in loro.
Abbiamo paura di ciò che è diverso o ci incuriosisce? Lo disprezziamo o, al contrario, ne apprezziamo le sfaccettature? Le dinamiche possono essere diverse e produrre reazioni differenti: la discriminazione oppure l’inclusione.
Purtroppo nel mondo odierno è ancora molto diffusa la prima opzione. Ciò che è diverso suscita in chi osserva biasimo, avversione e scarsa tolleranza, forse paura.
Esistono, per fortuna, realtà in cui gli esseri umani riescono ad accettare le differenze tra individui e, addirittura, le valorizzano. Ho potuto sperimentare la discriminazione e l’inclusione “grazie” a due condizioni che fanno di me una persona “diversa”.
Sono molto robusta e questo mi ha ostacolata nel lavoro e nei rapporti sociali. Anni fa trovai lavoro in un supermercato come addetta al banco gastronomia e sostenni il periodo di prova di un mese.
Durante questo periodo ricevetti molti complimenti per il lavoro che stavo svolgendo dal mio supervisore, sperai così che avrei potuto superare la prova ed essere inserita in azienda. A pochi giorni dal termine però, e con l’arrivo di un nuovo direttore, il mio supervisore si è visto costretto a comunicarmi che il mio periodo di prova non doveva considerarsi superato. Da fonti più che certe ed attendibili venni a sapere che il motivo di tale licenziamento furono le mie dimensioni. In quell'occasione scrissi una lettera alla selezionatrice del personale a cui ero tanto piaciuta e che, tra tante persone, aveva scelto me nonostante la mia importante fisicità. Non mi fece riassumere ma rimanere in silenzio davanti ad un’ingiustizia del genere non mi avrebbe certo aiutata a superarla.
Sono una donna forte ma ammetto di aver vacillato, di essermi sentita impotente di fronte ad una società che, a causa del mio peso, mi ha esclusa senza darmi alcuna possibilità.
Malauguratamente non è l’unico episodio di cui sono stata protagonista. Sono una cantante e trovare un ingaggio con un corpo così possente al giorno d’oggi è molto difficile. I gestori dei locali prediligono donne e uomini esili anche se, dopo anni di lotte per la parità fra sessi, risulta ancora più discriminato il sesso femminile.
Sono altresì affetta da Sclerosi Multipla e, con mia grande sorpresa, ho avuto modo di essere aiutata, spalleggiata, inclusa in gruppi in cui la diversità non è né un pregio né una virtù. È semplicemente ciò che sei. Mi sono chiesta il motivo per il quale la situazione si fosse capovolta ma la risposta è sempre stata solo una: la Sclerosi Multipla non si vede. Non è una verità assoluta, dipende dal decorso della malattia, ci sono alti e bassi, ricadute e problemi di deambulazione, cognitivi, di linguaggio, di memoria. Ma quando non si vedono gli effetti è come se non ci fosse.
La senti ma gli altri non la vedono e ti trattano come una persona normale. Mi ritengo una persona fortunata, ho avuto l’opportunità di guardare il mondo da più prospettive e di apprezzarne sfaccettature di cui ignoravo l’esistenza, ho imparato che ciò che è negativo ha sempre un lato positivo, basta cercarlo. È una malattia che comporta forti sbalzi d’umore, può provocare crisi depressive e la gente di solito si spaventa per queste cose più che per i problemi fisici che potrei avere. Nonostante ciò ci sono gruppi di persone per le quali la mia condizione non esiste.
Sanno che sono disabile, sanno ciò che può comportare la malattia, ma non mi riservano trattamenti di favore. In parte è dovuto al fatto che “quando parlo con te sembra che la Sclerosi Multipla la abbia qualcun altro”, in parte è dovuto all'educazione ricevuta, in parte alle persone che sono diventate nel corso degli anni attraverso le esperienze. È liberatorio poter stare con qualcuno che non ti discrimina per ciò che sei, piuttosto ti accetta con tutti i tuoi difetti e ti tratta come gli altri.
Penso, sono certa, di aver discriminato anche io. Probabilmente lo faccio e lo farò ancora. Sarei ipocrita se sostenessi che sia possibile includere chiunque. Ricordo che anni fa utilizzavo spesso la chat per comunicare con degli amici e conobbi un ragazzo col quale andavo molto d’accordo, ci scrivevamo spesso. Era nato con la spina bifida, era deformato, costretto in sedia a rotelle, ma molto intelligente. Lui era vulnerabile e si invaghì di me. Provai a spiegargli che non ricambiavo il sentimento ma l’unica cosa che lui vide fu il disprezzo per la sua condizione, l’orrore che pensava io provassi nei suoi confronti. Non so se avesse ragione, ancora oggi mi chiedo se mi sarei allontanata da lui se non mi avesse mandato una sua fotografia. Per chi vive situazioni così complesse, abituato a sentirsi emarginato, diventa molto difficile distinguere una persona sincera da una che invece sta tentando di esserti amica. Sono persone alla costante ricerca della “normalità”, non riescono a capire che è proprio ciò che sono. Si escludono da soli dal mondo esterno per paura di esser feriti ed in questo modo rendono difficile agli altri il percorso di inclusione che vorrebbero attuare nei loro confronti. Spesso è chi ha delle fragilità a non rendere possibile l’inclusione.
Così mi chiedo quali siano le vie da percorrere per creare un mondo in cui la discriminazione vada pian piano scemando e l’inclusione diventi la nuova normalità. L’insegnamento in casa, a scuola ed attraverso la televisione di certi comportamenti sarebbe sicuramente d’aiuto, ma non è possibile sopire gli istinti umani, determinate reazioni sono incontrollate. Gli esseri umani dovrebbero cambiare, ma così facendo perderebbero le loro unicità, rendendoli tutti uguali fra loro. Non sono convinta sarebbe un bene ma non sono convinta nemmeno del contrario. Da una parte le unicità sono quelle caratteristiche che ci permettono di legarci ad una persona piuttosto che ad un'altra, dall'altra se non ci fossero saremmo tutti uniti, senza distinzioni di razze, dimensioni, handicap, o tutti divisi.
Non credo sia possibile includere chiunque abbia una disabilità o una fragilità, penso piuttosto sia necessario far si che queste persone abbiano fiducia in se stesse e nelle loro capacità. È di vitale importanza educarli all'accettazione della diversità che li destabilizza, così che possano loro stessi rapportarsi con il prossimo in maniera sana, senza la paura di essere esclusi o presi in giro.
Questo passaggio è necessario per rendere possibile l’inclusione di chiunque abbia una disabilità, una diversità, una fragilità con cui fare i conti.

di Letizia B. - V Liceo di Scienze Umane opzione Economico-Sociale - I.S. "Balbo"

Noi giovani siamo la generazione del senza futuro,
ma il futuro ce l’abbiamo eccome,
per tutti esiste una possibilità, nessuno escluso.

Noi non viviamo di odio,
noi cerchiamo l'amore,
noi abbiamo la speranza,
la speranza che ci abbraccia come una madre amorevole,
noi ci abbracciamo l'un l'altro.

Non dobbiamo vivere di paura.
non dobbiamo dare la soddisfazione a chi non ci darà un lavoro,
a chi non ci sceglierà,
a chi non ci accoglierà, di pronunciare la fatidica frase
“Sei diverso”
nella nostra testa questa frase dovrà risuonare come “Sei speciale”.

Noi vogliamo vivere in un mondo libero
dove non conta il colore,
dove non conta la religione,
dove tutti noi contiamo qualcosa
perché ognuno di noi ha valore,
perché il mondo, senza ciascuno di noi,
non avrebbe alcun colore,
non avrebbe alcun valore.

Ciò che siamo realmente non lo trovi sulla superficie,
perché domandarci
se siamo dell'Africa
se siamo dell'America
se siamo dell'Europa?
Noi siamo esseri umani e questo vi deve bastare.

Accoglieteci
apriteci i vostri cuori,
lasciate entrare l’amore e la gioia
che noi giovani
possiamo dare,
dateci una possibilità,
come ce la diamo noi reciprocamente.

Noi giovani ci diamo una possibilità
noi giovani siamo la possibilità.

Viviamo in questo mondo pure noi
e vogliamo la libertà esattamente come voi.
La libertà non verrà
oggi, quest'anno o mai
tramite il compromesso e la paura,
ma solo con la fede,
senza arroganza ma con assertività,
senza odio ma con amore
senza io ma solo noi.

di Gioia G. - III C Liceo linguistico - I.S. "Balbo"

Ubuntu: espressione in lingua bantu che esprime il concetto della compassione e attenzione nei confronti dell’altro, la disponibilità nell’aiuto reciproco e l’importanza della comunità, del gruppo, rispetto al singolo individuo. 
Quando frequentavo le scuole medie, non ero interessata a ubuntu. Non avevo amici e non venivo invitata alle feste di compleanno. Mi definivano noiosa e, in fondo, anch'io credevo di esserlo. Non ero diversa dai miei coetanei, ma non piacevo loro. Così ho instaurato il meccanismo di difesa più elementare: “Se non piaccio a loro è perché loro non piacciono a me”. “Sono io che non voglio stare con loro” mi ripetevo. “Sono loro quelli sbagliati, non io.” In questo modo, tuttavia, avevo trasformato una situazione in cui davvero non ero io il problema in una in cui sbagliavo, autosabotandomi. Quale ragazzino di undici anni, dopotutto, sceglierebbe in squadra a educazione fisica la compagna che dice di odiarlo? Quale ragazzino di undici anni inviterebbe al suo pigiama party la compagna triste e arrabbiata con tutti? Quale ragazzino sarebbe potuto diventarmi amico, quando mi atteggiavo a superiore? 
Col tempo ho capito dove sbagliavo e ho saputo correggermi. Sono entrata alle superiori come la persona che sono davvero, abbattendo la facciata dura che inquietava tutti ed eccomi: insicura, fragile ed eccessivamente emotiva. Con mia grande sorpresa, però, togliermi la maschera si è rivelata una mossa vincente: i miei compagni hanno iniziato a invitarmi a uscire, finalmente ho partecipato anch'io ai tanto ambiti pigiama party e, anche se ho continuato a essere l’ultima scelta durante educazione fisica, so che ciò è dovuto alla mia scarsa, o totalmente assente, coordinazione e non perché risulto antipatica a tutti.
Quell'anno, l'anno della mia prima superiore, la mia vita si era trasformata in un sogno che credevo irrealizzabile, pieno di impegni, uscite, compleanni, gelati in compagnia e soirées. Le persone ridevano alle mie battute e non più per schernirmi, erano interessati alle mie opinioni, non le deridevano e, anzi, sembravano apprezzarle. Iniziai a conoscere nuove persone e scoprii che mi piaceva, legai con nuovi amici, entrai in una compagnia del sabato sera, imparai il significato di gruppo e solo allora, circondata da persone che amavo e mi amavano, sommersa dagli impegni, travolta dalla sensazione di calore alle parole “senza di te non è lo stesso”, solo allora compresi appieno il significato di ubuntu. Far parte di una comunità, avere qualcuno che ti tiene il posto accanto, essere considerati speciali da persone che tu stessa ritieni speciali. Essere la cotta del ragazzo con cui non avresti mai sognato di parlare, avere amici a cui raccontare i tuoi problemi e che si prodigano a risolverteli.
In questo nuovo ambiente, coccolata dal clima di affetto in cui mi ero trovata immersa, restai folgorata da due riflessioni molto importanti nella storia della mia evoluzione personale. La prima era il fatto, per me sconvolgente, che effettivamente non ero io quella sbagliata, non ero un problema, non ero né diversa né una causa persa, anzi: alle persone importava di me, di come stessi e della mia felicità. Alle medie anche il solo concepire che qualcuno avrebbe voluto essermi amico era folle, figuriamoci immaginare che addirittura qualcuno si sarebbe interessato alla mia felicità: era assurdo, uno di quei sogni irrazionali del tipo: “tutto è possibile, ma se c’è qualcosa di impossibile è proprio questo”, un pensiero spaventoso, tanto era il timore persino di concepirlo poiché lo sentivo come una mera illusione.
Ma fu la seconda “rivelazione” a sconcertarmi di più. Ci volle un po' di tempo prima che mi diventasse chiara, ma quando la realizzai, fui travolta dalla sua potenza.
Forse perché sono una pessima osservatrice e un'eccellente “egoista”, non me ne ero mai resa conto: io non ero la sola.
C’era quella ragazza, che se ne stava ai giardini pubblici a leggere in solitudine, che aveva paura di parlare a chi non conosceva e si isolava nei suoi libri. Giorno dopo giorno. Come avevo potuto non notarlo, passando quotidianamente di lì dopo scuola?
Indossava un hijab e non c'era mai nessuno seduto accanto a lei.
Poi c’era quel ragazzo, della mia città, che prendevano sempre tutti in giro, a prescindere da che cosa facesse, a prescindere da che cosa dicesse. Lo apostrofavano “finocchio” e il suo volto si rigava di lacrime. Giorno dopo giorno. Ignoravo se fosse davvero omosessuale, ma di certo lui era solo e fragile, come lo ero stata io. Forse era semplicemente troppo emotivo e in una società in cui piangere è da deboli e tale debolezza è sinonimo di “femminilità”, la sua emotività era diventata - giocoforza - sinonimo di omosessualità. Come avevo potuto non notare che dietro ai nomignoli che lui mi affibbiava c'era il meccanismo di difesa che avevo attuato anch'io fino a un anno prima? Non ero stata anch’io così meschina per insicurezza? Non si meritava anche lui qualcuno che lo invitasse alle feste di compleanno.
C’era anche una ragazza di un anno più grande di me, che era stata nella mia classe alle medie. Lei era gentile, ma nessuno la capiva. Aveva difficoltà a scuola, faticava a ricordare le più semplici nozioni e invece di giustificarla, la chiamavano “stupida”. Si arrabbiavano quando le erano concesse le verifiche semplificate e ridevano quando parlava del lavoro che avrebbe voluto fare. “Obiettivo un po' troppo alto per una stupida” la beffeggiavano. Come avevo potuto ignorare tutto questo? Ero stata in classe con lei, lei era gentile. Non si meritava di essere definita “ritardata”, non si meritava di essere sminuita nei suoi sogni.
E la ragazza della compagnia del sabato? Lei non era straniera o omosessuale, non aveva nessun tipo di deficit cognitivo e aveva degli amici. E allora perché se ne stava in un angolo alle feste, per paura di essere notata? Perché si ricopriva il volto di trucco, quando era così bella? Lei era la mia migliore amica da sempre, quasi una sorella. Come ero riuscita a non notare l’indecisione sull’outfit prima di uscire, le guance paonazze di fronte agli insulti, gli sguardi di disgusto rivolti allo specchio?
Quanto ero stata cieca per non vedere il terrore di mostrarsi in costume in piscina, i pianti soffocati nel cuscino, l’odio per se stessa? La chiamavano “cinghiale” e quella parola sussurrata bastava a rovinare il trucco della festa. Erano suoi amici, era “per ridere”, anche se a me non faceva ridere affatto. Non era sovrappeso, era solo robusta e molto incline a confrontarsi con i canoni estetici che ci sbattono in faccia: guardava il modello di ragazza di Instagram, un tipo di donna tendente all’anoressia, e lo paragonava al riflesso della donna, decisamente più in salute, che vedeva nello specchio. Perché non capiva che valeva di più di quel nomignolo, che lei, la ragazza meravigliosa che conoscevo io, era più dell’appellativo “cinghiale”?
Così, dopo quella rivelazione così importante per me, un giorno ho deciso di sedermi sulla panchina, accanto alla ragazza che avevo finalmente notato. Le ho chiesto se fosse un bel libro, quello che stava leggendo, e abbiamo chiacchierato qualche minuto. E abbiamo chiacchierato anche il giorno dopo. E poi ancora e ancora. Finché ci siamo scambiate i numeri di telefono e ora ci sentiamo spesso.
Così ho preso le difese del ragazzo della mia città che, al di là del suo orientamento sessuale, non aveva motivo di essere ridicolizzato per la sua sensibilità o per il suo atteggiamento “femminile”. Era come ero stata io: era diventato la persona che non voleva essere, era arrabbiato e insicuro. Tra di noi non è nata una vera e propria amicizia, ma mi piace pensare che averlo capito, capito davvero, lo abbia aiutato. Mi piace pensare che nel momento stesso in cui ho iniziato a sorridere ai suoi insulti, non per deriderlo ma per confortarlo, io gli abbia dolcemente indicato la strada da percorrere. Mi piace pensare che il ragazzo che è ora, amichevole, divertente e socievole, lo sia diventato in parte grazie a me; mi piace pensare che, mantenendo la sua personalità tanto criticata, abbia trovato il modo di farsi apprezzare grazie al mio supporto, anche quando si è trattato solo di un sorriso.
Il supporto è stato anche il modo in cui ho cercato di aiutare quella mia compagna delle medie, incoraggiandola nelle sue scelte. Lei ha un'idea chiara di ciò che vuole diventare e sono certa che raggiungerà il suo obiettivo, malgrado le difficoltà.
E la ragazza più splendida e fragile che conosca? Lei è circondata da amici, ma sono pessimi amici. Vorrei poter affermare con sicurezza di sapere come gestire la situazione, come aiutarla a superare la paura di non essere accettata o come cancellare l’odio che nutre nei confronti del suo corpo, ma mentirei. La verità è che, per superare il giudizio altrui, prima di tutto occorre che lei stessa si ami. E io prometto che le ripeterò incessantemente quanto sia bella e speciale, la difenderò dai suoi terribili amici e dai loro scherzi, risponderò alle sue chiamate alle tre di notte per confortarla, le asciugherò le lacrime quando la escluderanno dalla festa in bikini perché “tu non te lo puoi permettere” e farò quanto è in mio potere per aiutarla, perché la amo come una sorella. Io so che lei è più di quello che vedono gli altri, ma finché lei non si sentirà pronta, finché non considererà più lo specchio il suo nemico, finché non sarà lei a capire di valere più del suo corpo e che il suo corpo vale più di quello della modella dei social, il mio aiuto non sarà sufficiente. Ma io ho fiducia in lei.
Fin da piccoli ci è stato ripetuto che essere adulti è difficile, faticoso, impegnativo, quasi spaventoso. Ma non ci avvisano di un particolare tutt'altro che trascurabile: che non si diventa adulti all’improvviso. Il passaggio dall'infanzia all'età adulta è il più arduo da superare e noi non siamo stati avvertiti di quanto oscuro sarebbe stato attraversarlo. Non ci hanno avvertiti delle notti passate a piangere schiacciati dal peso del giudizio altrui; non ci hanno preparato ad affrontare i bulli, i falsi amici, gli avversari; non ci hanno informato di quante volte ci saremmo odiati, ci saremmo sentiti stupidi e brutti e ci saremmo vergognati di ciò che siamo; non ci hanno avvisato che ci avrebbero spezzato il cuore con un messaggio che dice “non sei abbastanza”; non ci hanno detto che ci saremmo sentiti falliti, inutili, che ci saremmo guardati allo specchio pensando “perché andare avanti?”. Non ci hanno spiegato come superare l’insicurezza, l’ansia da prestazione, la solitudine. Ma soprattutto ci hanno taciuto che, in quanto persone, saremmo stati unici, ineguagliabili e straordinari. Non ci hanno chiarito che “unico” significa “diverso” e che nella nostra diversità potremmo sentirci soli ed esclusi.
Ci sentiremo soli ed esclusi quando nessuno capirà perché abbiamo difficoltà a studiare, perché non possiamo permetterci quella borsa, perché detestiamo le nostre cosce, perché abbiamo una differente cittadinanza o perché preghiamo un altro dio.
Ci sentiremo soli, esclusi e incompresi e verremo giudicati, biasimati, criticati per ciò che siamo e per ciò che amiamo; verremo resi schiavi del pensiero altrui, avremo paura a mostrare la nostra diversità.
Sarà immane il fardello da reggere, sarà dissestata la via da percorrere.
A me piace pensare che poiché siamo tutti unici, siamo tutti diversi. E mi auguro che un giorno sarà chiaro che non si può giudicare chi è “diverso”, dato che tu stesso sei diverso dagli altri e gli altri sono tutti diversi tra loro.
E poi, più che considerarci “diversi”, iniziamo finalmente a considerarci “speciali”!

di Andrea B. - IV A Liceo Scientifico - I.S. “Balbo”

Inclusione: un’unica parola usata negli ambiti più svariati. Una delle definizioni che mi vengono in mente è quella che si impara sui banchi di scuola nelle ore di matematica: in insiemistica si parla di inclusione per indicare che un determinato elemento fa parte di un insieme.
Anche dallo studio della biologia si può ricavare una metafora a dir poco azzeccata: le cellule decidono di cooperare, sfruttare al massimo le proprie potenzialità, differenze e specializzazioni per permettere il corretto funzionamento di tutti i processi che garantiscono la vita di un organismo, il suo dono più grande.
Proprio noi esseri viventi, esempi di cooperazione e inclusione di indispensabili enti microscopici, non possiamo che tendere ad unirci e vivere in comunità, per non rimanere isolati, per non restare da soli. Per non sentirci soli. Così noi esseri umani abbiamo formato famiglie, ci siamo uniti in villaggi e, nel corso del tempo, i villaggi si sono uniti in stati i cui confini sono stati più e più volte rimodellati da battaglie, guerre e rivoluzioni.
Circa settant’anni fa, proprio dopo la chiusura di uno dei più pesanti e disastrosi di questi conflitti, che ha disseminato morte, distruzione e macerie in tutto il mondo, numerosi stati si sono uniti in un’organizzazione intergovernativa che, nella lista degli obiettivi da conseguire entro il 2030, ha segnato anche l’inclusione, perché, purtroppo, ancora oggi, ci sono persone che vengono discriminate, escluse e ghettizzate. Dieci anni ci separano dal 2030 e molti passi in avanti possono e devono essere fatti. La partita è ancora tutta da giocare: noi giovani abbiamo un ruolo fondamentale.
Prima di scendere in campo e di preparare il proprio piano d’azione è utile ascoltare le testimonianze di chi gioca e lotta da una vita, per capire quali sono le strategie migliori da adottare.
In questa prima fase, gli adulti e i più grandi hanno un ruolo di fondamentale importanza: educare i giovani e orientarli nella giusta direzione. Quante volte i nipoti si siedono sulle ginocchia dei loro nonni ad ascoltare i racconti di una vita? Ad immaginare, in religioso silenzio, cosa succedeva ai tempi della guerra o quando ancora l’Italia non poteva vantare un bicameralismo perfetto e il suffragio universale? Lo stesso rispettoso silenzio che vale più di mille parole che riserviamo alle testimonianze delle vittime di un regime che non mirava minimamente all’inclusione e alla salvaguardia delle diversità, di chi l’orrore dei campi di concentramento e sterminio l’ha vissuto sulla propria pelle, dove ancora porta il marchio e la matricola che doveva annullare la sua identità.
Prima di agire, ritengo sia importante fermarsi e far tesoro delle testimonianze, in modo tale da imparare da esse e da chi le porta, così da diventare poi noi stessi testimoni di avvenimenti che mai e poi mai vogliamo che si verifichino di nuovo. Solo ascoltando e imparando possiamo evitare di dimenticare.
E ora, dopo questa premessa, scendiamo in campo per davvero e lo facciamo proprio a partire dai parchi, dalle panchine dei viali alberati, dai bar e dagli oratori: in tutti i posti in cui i giovani si incontrano e si dividono in gruppi di amici. È lì che bisogna agire, perché dove c’è un gruppo formato e consolidato, dove c’è un branco stretto e intimo, potrebbe esserci una persona che ne è esclusa e va alla ricerca di complicità.
Vestiti, scarpe, atteggiamenti. Quanti sono i fattori e i dettagli che una persona è disposta a cambiare pur di sentirsi parte di un gruppo e farsi accettare dagli altri membri? In un momento così delicato come quello dell’adolescenza, avere delle persone a cui tenere e di cui fidarsi è dannatamente importante. È facile, quindi, capire quanto disperatamente una persona voglia sentirsi parte di qualcosa di più grande ed é ancora più facile comprendere che questa può essere disposta a cambiare molti aspetti di sé pur di farsi accettare ed entrare a far parte della comitiva. Ma siamo noi, ragazze e ragazzi che già abbiamo un gruppo di amici, a dover fare il primo passo quando si vede qualcuno che, in difficoltà, si guarda attorno spaurito e solo e a fargli segno di raggiungerci, accoglierlo e spiegargli che nulla nel suo modo di essere va cambiato; fargli capire che un gruppo di amici non è definibile come tale se i suoi membri, conservando ciascuno i propri pensieri e modi di fare, non sono pronti a imparare gli uni dagli altri, in uno spirito di condivisione. Applicando la medesima strategia di inclusione, che non potrà che rivelarsi vincente, al nuovo compagno di classe, alla nuova vicina di casa, al migrante sbarcato che ancora porta negli occhi il dolore delle esperienze passate e il colore del mare che ha attraversato, andremo ad ampliare il nostro gruppo, la nostra famiglia, il nostro villaggio, il nostro stato. “Accogliere” sarà la nuova parola d’ordine, il passepartout che apre tutte le porte del mondo: solo in questo modo non ci sarà più un “loro” e un “noi”, ma un unico grande senso di umanità.
Una volta imparato ad includere, bisogna capire come fare a non lasciare andare, a non abbassare la guardia e ad essere sempre vigili e attenti nel caso in cui un anello della catena dovesse spezzarsi e un abitante del nostro villaggio dovesse aver bisogno di aiuto. Il senso di inclusione, infatti, esattamente come un fuoco acceso nel cuore della notte, deve essere curato e alimentato, per evitare che la fiamma si spenga. Sta a noi dunque assicurarci che nessuno venga escluso dai giochi, in piazza come al parco o in oratorio, perché troppo basso o troppo alto, perché troppo magro o troppo grasso, perché di religione o etnia diverse. Dobbiamo noi essere in prima linea per evitare che chi soffre di una forma di disabilità fisica stia al di fuori di una stanza alla quale si accede solo salendo le scale e per evitare che chi soffre di una qualsiasi forma di disabilità mentale rimanga isolato e rinchiuso tra le spesse e difficilmente penetrabili mura della sua mente; dare il massimo e usare la forza e lo spirito che ci animano per andare a distruggere le pareti e spianare le strade per raggiungere tutti e tutto e trovare il modo per starci vicini anche quando siamo lontani, come in questo periodo tutt’altro che ordinario. Un virus, un meschino pacchetto di proteine e materiale genetico, tanto piccolo nelle dimensioni quanto pericoloso, che di vivente non ha nulla, ma che dispone di tutte le armi necessarie per annientare la vita nostra e dei nostri cari, proprio come una granata lanciata da lontano, è arrivato dal nulla e ha messo a dura prova il mondo intero, minacciando l’intera popolazione e, in particolare, gli anziani, i quali paiono essere le vittime più colpite dalla pandemia, ma ha anche fatto in modo che i gesti silenziosi rivolti alle categorie più fragili ed agli esclusi venissero allo scoperto e si manifestassero con maggiore evidenza. Non posso che guardare con grande ammirazione alle ragazze e ai ragazzi di pochi anni più grandi di me che, conoscendo perfettamente il pericolo che comporta l’uscire di casa in questa situazione completamente fuori dal comune, si sono prontamente offerti di fare la spesa e pagare le bollette per chiunque si trovi in difficoltà e stia correndo il rischio di rimanere isolato ed escluso. Persone che, senza aspettarsi alcun riconoscimento o pagamento, se non il senso di gioia e soddisfazione che deriva dall’essersi messi in gioco, hanno usato se stesse come mezzo per fare del bene, per fare qualcosa di grande. Non è stato il virus a mettere in moto i ragazzi: infatti, già prima che la pandemia si diffondesse di paese in paese, giovani donne e giovani uomini, invece di uscire con gli amici e andare in discoteca al sabato sera, passavano la notte prestando servizio in Croce Rossa o, invece di andare a cena con il fidanzato o la fidanzata, stavano al bancone delle mense per i bisognosi a servire un pasto caldo e un sorriso a chiunque si presentasse, lavorando sodo per rendere migliori le cose e portando con sé, nelle parole e nelle azioni, esempi e valori.
Quella dell’inclusione è una delle poche sfide in cui il mettersi in gioco ha solo risvolti positivi e non può che portare ad una vittoria, piccola o grande che sia. Chiunque può scendere in campo e contribuire e fare del suo meglio. Qualsiasi gesto, anche il più piccolo, anche solo un sorriso, fatto col cuore in mano, può fare la differenza per costruire un futuro e una società da cui nessuno possa essere escluso.

di Elena B. - II B Liceo Classico - I.S. "Balbo"

Ho sempre avuto paura del silenzio. Fin da quando ero piccolo e di notte mi svegliavo dopo un incubo, non rimanevo a fissare il soffitto per riaddormentarmi, non volevo vedere cosa ci fosse al di là delle mie coperte, in quel mondo popolato di mostri che diventava la mia cameretta appena la luce si spegneva. Mi terrorizzava quel buio, quell’immobilità notturna, ma soprattutto quel silenzio che permeava ogni parte della casa, che mi entrava nelle orecchie e mi faceva sentire solo. Sì, completamente solo: l’unica creatura sveglia nel raggio di metri, chilometri forse. Allora mettevo le mani sulle orecchie, come a scacciare quella sensazione e mi riaddormentavo pensando a quanto presto sarebbe arrivato il mattino: pensavo che fosse quella la vera solitudine.
Seduto al mio banco di scuola, il secondo a sinistra, quello vicino alla finestra , sento suonare la campanella e mi riscuoto dal torpore in cui ero precipitato. In un attimo i miei compagni sono fuori, spariti, defluiti come onde su una spiaggia su cui resto soltanto io. Sento i loro schiamazzi dal corridoio, le voci mi giungono ovattate, riecheggiano nel mio cervello finché non sono costretto a mettermi le mani sulle orecchie per non sentire più niente, per non sentirli più. Ripenso a quelle notti da bambino e mi chiedo se in fondo sia cambiato qualcosa. Tiro fuori la mia merenda e la mangio in silenzio, anche se non ne ho voglia, poi mi alzo e lentamente, come a non turbare quella quiete innaturale, mi alzo e vado in bagno. Tengo la testa bassa, non voglio vedere i soliti capannelli, non perché mi scherniscano o mi gridino insulti, ma proprio perché non sembrano nemmeno vedermi; non voglio sentirmi invisibile ora. Ci sono duecentoquarantanove mattonelle tra la porta della classe e il bagno. Lo so perché le conto ogni giorno. Passo dieci minuti nel bagno in fondo, quello un po’ nascosto dal gigantesco armadio a muro pieno di detersivi e spazzoloni; so che sono dieci minuti esatti perché li conto sempre sul mio orologio Casio. Quando esco, mi lavo le mani e torno in classe sempre contando le mattonelle. Mi siedo e aspetto altri cinque minuti, solitamente per passare il tempo svuoto l’astuccio, conto le mie penne e le rimetto al loro posto. Sul banco accanto a me c’è il mio zaino. Il posto è vuoto quindi posso metterlo lì. Non leggo, non disegno, aspetto solo che ricominci la lezione.
Non sono strano, sono solo escluso.
I miei compagni non mi vogliono. Non c’è un motivo vero, non è perché non so giocare a calcio -a casa gioco da solo e sono piuttosto bravo-, non ho un colore della pelle diverso, non ho difficoltà di alcun genere, semplicemente, hanno scelto così la mattina del primo giorno di scuola di tre anni fa e da lì così è stato.
L’anno scorso è arrivato in classe un ragazzino albanese, Yuri. Prima del suo arrivo le professoresse ci hanno fatto fare un lavoro sull’inclusione e sul razzismo, erano preoccupate che qualcuno potesse fare dell’ironia sul suo nome strano, sulla sua cadenza, sul suo italiano non perfetto. Ma Yuri non aveva bisogno di tutto ciò. È arrivato e subito tutti si sono stretti intorno a lui - “è per il carisma”, secondo mia mamma - maschi o femmine che fossero.
Yuri viene invitato alle feste. Yuri scende con i miei compagni nell’intervallo. Yuri va alle partite nel campetto dietro la scuola al pomeriggio e nemmeno sa giocare. Questa è la differenza tra me e lui.
Essere esclusi non è avere un nome strano, venire da un altro paese, non sapere la nostra lingua.
Essere esclusi è sapere quante piastrelle ci sono tra la tua classe e il bagno, quante incisioni ci sono sul tuo banco, quanti passi dalla scuola a casa tua. Essere esclusi è conoscere a memoria il soffitto di camera tua, ogni macchia, ogni crepa, perché non puoi fare altro che guardarlo quando ti svegli molto prima della sveglia, hai sognato di nuovo che eri Yuri, e magari e adesso non puoi più dormire.
Essere esclusi vuol dire che senti quelli del banco dietro parlare di un compleanno a cui tu non sei stato invitato e immaginare come sarebbe stato andarci, se papà ti avesse prestato una cravatta - quella rossa - e che regalo avresti scelto per quella persona.
Essere esclusi è conoscere tutti, sapere i loro gusti e le loro opinioni, ma come sai quelle dei personaggi di un film, perché non puoi interagirci. Ricordo distintamente un giorno dell’anno scorso, la prof di latino spiegava l’Eneide, la preghiera di un supplice terminava dicendo: “Res propius aspice nostra”. “Guarda più da vicino i nostri casi” letteralmente, osservaci, guardaci davvero, non restare indifferente. Ricordo distintamente di aver compreso, a distanza di duemila anni, il significato profondo di quelle parole.
Nessuno mi prende in giro. Non ricevo insulti, né spintoni quando scendo le scale da solo. Non c’è bullismo, c’è qualcosa di molto più freddo, un’indifferenza lattiginosa, un muro di gomma tra me e gli altri.
Andare a scuola non è più angosciante, non mi fa paura, è solo un po’ triste. Mangio il mio panino, conto le mie piastrelle fino al bagno, metto a posto le penne e la giornata procede uniforme, a una velocità bassa ma costante. Ogni tanto, nella mia testa risuona quel grido antico e vorrei soltanto urlare a chi si scosta per farmi passare “Guardami, Guardami!” . Ogni tanto di notte, mi sveglio ancora, e vorrei che fosse vero quel film in cui io sono Yuri ma non lui nello specifico, semplicemente sono protagonista, ho tanti amici, al pomeriggio segno più di un goal ad ogni partita e il sabato vado ai compleanni, oppure esco a prendere il gelato con Sara o con Martina. Fuori dalla mia testa ci sono sempre duecentoquarantanove piastrelle, cinquecentosei passi tra la scuola e casa mia e una distanza siderale fra me e i miei compagni.
Mi chiamo Andrea e sono un escluso.

di Chiara N. - III BL Liceo delle Scienze Applicate - I.S. "A. Sobrero"

Ad oggi, l'inclusione, per come è intesa dal vocabolario, è un'utopia.
Il termine rappresenta la condizione in cui tutti gli individui vivono una situazione di uguaglianza e di pari opportunità, indipendentemente dalle diversità.
Ad oggi, l'inclusione totalizzante non esiste, motivo per cui, ad esempio, è ancora estremamente necessario, oltre che importantissimo, parlarne e promuoverne la sensibilizzazione.
Ad oggi, si è molto più vicini all'integrazione che all'inclusione, che resta oggetto di attenzione da parte delle maggiori istituzioni internazionali, a partire dall’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) che invita, ad esempio, ad occuparsi in termini mirati non solo della disabilità, ma di tutte quelle condizioni in cui l'uomo, per una serie svariata di motivi, accusa delle fragilità che rendono difficile il suo percorso di vita. Se ne interessano i politici che spingono per sostegni alle fasce disagiate della popolazione mondiale, se ne occupa il mondo della scuola che da tempo sostiene la necessità di formazione specifica dei docenti al fine di eliminare ogni sorta di barriera.
Sono numerose le persone a rischio di esclusione sociale: le donne, gli anziani, gli stranieri e tutti coloro che in qualche modo possono essere considerati diversi, come i soggetti disabili i quali restano, per me, un ambito elettivo, poiché vivo quotidianamente il dolore e l'indifferenza per la loro diversità.
Ad oggi, la società malata in cui viviamo, fatta di cultura del benessere incondizionato, non lascia molto spazio per attivare l'inclusione; e il ragazzino che vive la sua vita scolastica perfettamente assistito, ma senza partecipazione e valorizzazione delle sue reali potenzialità, non fa dell'istituzione scolastica una buona scuola, nonostante gli sforzi che insegnanti e genitori mettono in campo ogni giorno. L'insegnante che si prende cura e provvede al ragazzino le cui necessità, sovente, non rispettano il tempo dell'intervallo perché costretto sulla sedia a rotelle o perché la sua mente è distratta e lontana da discipline scolastiche che non comprende, è sicuramente un insegnante rispettabile e capace, ma, a mio avviso, questo tipo di realtà è molto lontana dal concetto di inclusività. È un modo di agire che lascia i giovani per lo più indifferenti, con la sensazione che si vive in due mondi che viaggiano su orbite indipendenti, si sfiorano a volte, ma non si incontrano.
Per me essere inclusa significa soprattutto non sentirmi a disagio con le mie differenze quando sono in mezzo ad altri; significa sentirmi adeguata nonostante i miei limiti… Ecco il dispiacere e la rabbia… E, allo stesso tempo, il forte desiderio che l'inclusività diventi un progetto di vita per tutti, un obiettivo che va oltre gli anni di scuola, un impegno che ognuno dovrebbe assumersi nel rispetto dell'altro, in modo sostanziale e non solo formale. Secondo il mio modo di pensare, si potrebbe iniziare un percorso verso l'inclusività nel momento in cui si hanno le prime esperienze di vita sociale, alla scuola dell’infanzia: in essa è più facile un’organizzazione degli ambienti e delle metodologie didattiche in funzione della comunicazione e della cooperazione tra gli alunni a cui è inoltre più facile far comprendere che il bambino portatore di disabilità è anche portatore di nuove modalità di interazione comunicativa nel gruppo classe, suscitando curiosità costruttiva e maggiore arricchimento.
La scuola è teatro attivo e variegato di attori in cui i partecipanti rispecchiano le mille sfaccettature della realtà: diversi per provenienza, per cultura, per religione, per orientamento sessuale, per disabilità cognitive e fisiche. Sono convinta che la scuola sia lo scenario di questo teatro che ha, dietro le quinte, un imponente esercito di persone con bisogni educativi diversi, persone che si presentano sul palco vestiti solo di queste diversità: di ruolo, di genere, di parti, di costumi e di travestimenti …
Ecco allora che abituare gli allievi a darsi una mano rispettando il proprio ruolo e l'abilità di ciascuno è funzionale per il buon esito dell'esibizione e potrebbe dare l’idea di quanto l'inclusione andrebbe promossa e sostenuta.
L'inclusione è possibile se a tutti sono date le stesse possibilità senza distinzioni. I primi passi verso la cultura dell'inclusione scolastica probabilmente dovrebbero apportare cambiamenti a tutto il sistema scolastico attuale, cominciando dall'organizzazione degli spazi, incluse le eterne barriere architettoniche, passando alla revisione di programmi e discipline scolastiche, sostenendo con specifica formazione l’intero team del personale.
Superare la logica dell'integrazione con cui i sistemi d'istruzione tendono a gestire le diversità, in particolare nei confronti di disabilità e multiculturalità, è un progetto auspicabile e arduo perché il cammino per raggiungere l'inclusività nel suo senso più stretto, totalizzante, è ancora lungo e complicato.
Penso fermamente che è doveroso comprendere che tutti siamo chiamati a fare la nostra parte in modo rispettoso e “complice” per la costruzione di una società di uomini liberi da confini territoriali e umani.

di Sara V. - IV Grafica e Comunicazione - I.S. "Leardi"

Anna Maria Comito afferma che "Una cultura inclusiva vuol dire accettare senza distinzione e non rifiutare le differenze, anzi valorizzarle insieme alle unicità di ciascuno di noi."Sicuramente ad ognuno di noi sarà capitato almeno una volta nella vita di vedere o sentire storie di ragazzi considerati “diversi”.
Oggi racconterò la mia.
Fortunatamente, al contrario di altri, sono nata con delle diversità non troppo evidenti. Questo significa che ho provato, provo e proverò sicuramente meno imbarazzo di fronte alle persone. Nel momento in cui qualcuno inizia a conoscermi, non immaginerebbe mai nemmeno lontanamente che io possa avere una malattia al cuore e al tempo stesso avere una pesante perdita d’udito che mi costringe a dover portare gli apparecchi per poter sentire.
Mentre durante l’infanzia spesso mi sentivo a disagio a parlarne, ora no.
Un giorno mi sono detta che nessuno potrà mai effettivamente impedirmi di parlarne anzi, è meglio, così nel caso un domani mi dovessi sentire male mentre sono con un’amica o un amico sarebbero consapevoli di come dovrebbero agire di conseguenza.
D’altra parte però mi trovo tuttora molto in difficoltà nel fare amicizia quando per esempio vado in vacanza al mare; in questa circostanza, dovendo entrare in acqua devo sempre ricordarmi di togliere gli apparecchi acustici e d’improvviso sento solo un brusio di sottofondo. Per questo provo disagio a chiedere di urlare per poter fare in modo che io capisca. Ciò mi porta tanta insicurezza.
Da piccolina ho avuto molti problemi ad integrarmi con i miei coetanei, erano i primi periodi in cui portavo gli apparecchi e la voce si era sparsa in fretta, alcuni bambini poco più grandi di me hanno iniziato ad urlarmi vicino alle orecchie frasi inadeguate e offensive nei miei confronti.
Dopo essere stati messi a tacere e averli fatti ragionare non hanno più aperto bocca, o per lo meno non più davanti a me.
Ad essere sincera, ancora adesso capita che a volte qualcuno faccia lo spiritoso, probabilmente senza nemmeno rendersene conto: taluni fanno una battuta poco carina riguardo ai miei problemi di salute.
Cerco sempre di chiudere un occhio e di non pensarci, anche se in realtà sono capace di pensarci per un bel po’ di tempo, non parlandone mai con nessuno per non essere fraintesa come una che cerca continue attenzioni.
Quando ho iniziato a frequentare le superiori, per me come per molti altri che arrivano da paesini piccoli, passare in una città più grande era una nuova esperienza: scuola nuova, molti più corridoi, volti sconosciuti, professori diversi per ogni materia.
Il mio primo anno di superiori è stato pressoché drastico, tra minacce da parte di una ragazza e frasi offensive da altri, non mi sono mai sentita inclusa totalmente nella classe, sentendomi poi successivamente costretta a dover cambiare sezione e ricominciare tutto da capo in seconda superiore. Quindi altri volti sconosciuti, professori nuovi e così via.
Nella classe attuale ci sono molti gruppetti, ma almeno nessuno mi offende o insulta senza un motivo sensato.
Il fatto è che le persone parlano quando non dovrebbero, non avendo mai provato in modo diretto ciò che invece noi “diversi” abbiamo provato in passato, proviamo ora e, magari proveremo per tutta la vita; non potranno mai capire cosa realmente ci ferisce, prendendola così con troppa superficialità.
Spesso però noi, considerati tali, siamo “diversi” e allo stesso tempo “speciali”, siamo fragili e sensibili perché guardiamo e sentiamo con dei punti di vista in più che nessun altro oltre a noi potrà mai comprendere del tutto.
Nonostante ciò, penso che grazie a queste persone, in questi anni sono riuscita ad essere ciò che sono oggi: una ragazza forte che trova sempre un modo e un motivo per andare avanti col sorriso malgrado gli ostacoli che spesso mi portano dei dispiaceri.
Dico sempre di voler praticare sport per i quali io andrei matta, come ad esempio la ginnastica artistica, l’aerial silk/hoop, la danza del ventre, snowboard, il nuoto e tanti altri, pur sapendo che non li potrò mai fare perché richiedono uno sforzo troppo eccessivo per il mio cuore.
Non per questo motivo però devo buttarmi giù privandomi della possibilità di avere uno o più hobby e, chi lo sa, magari un domani uno di questi si trasformerà in una vera e propria passione o addirittura in un lavoro, facendo gli stessi sacrifici che farebbe qualsiasi comune mortale.
Anche riguardo questo ho avuto problemi sempre all’interno della scuola, è capitato che venissi considerata avvantaggiata o favorita rispetto agli altri studenti, avendo quindi un “trattamento differente” da parte dei professori; non è mai stato effettivamente così, i prof. come aiutano me, aiutano qualsiasi altra persona qualora abbia bisogno.
Detto ciò, ci tengo a precisare un discorso per me molto importante.
Noi non vogliamo assolutamente essere trattati come “strani”, guardati come “malati” e, ancor meno cerchiamo la compassione o l’accettazione altrui. Nessuno potrà mai piacere a tutti, di questo ne siamo consapevoli.
Anzi, spesso siamo proprio noi che, sapendo come si sta dalla parte dell’emarginato, prendiamo l'iniziativa di avvicinarci alle persone più sole.
Vogliamo semplicemente essere noi stessi, liberi, rispettati come noi rispettiamo e, soprattutto vogliamo essere felici a modo nostro senza essere continuamente giudicati.
Chi lo dice che noi “diversi” non siamo buoni amici? Magari siamo esattamente la persona “speciale” di cui avete proprio bisogno nella vostra vita.
Purtroppo so bene che molti ragazzi evitano di stare a nostro stretto contatto, semplicemente per paura di quello che potrebbero pensare gli altri nei loro confronti.
A volte però è bello poter cambiare, uscire dalla solita monotonia, essere se stessi e buttarsi seguendo i propri sentimenti ed emozioni, rischiare e lasciare perdere il pensiero altrui almeno per una volta facendo ciò che si vuole Insegniamo al mondo che nessuno deve essere escluso e prendiamoci tutti per mano, la vita è una sola, non c’è tempo per i rimpianti.
Vivi, ama e lascia vivere.

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